Un Paese morto

mela itaAncora ricordo, con tanto piacere, le giornate passate al freddo polare e al caldo torrido della nostra bella Torino, nell’intento di informare, raccogliere firme e promuovere iniziative, per passare un semplice concetto : la crisi arriverà e allora, come disse il mito degli anni ottanta “Er Monnezza”, saranno “uccelli per diabetici”. Adesso gli uccelli di Tomàs Milian sono arrivati e il disorientamento si fa sempre più pericoloso col passare dei mesi.
Si, prendiamola sul ridere e mettiamoci tanta ironia, ma resta il fatto che, la situazione sociale, sta implodendo, ed il pericolo di una crescita della violenza quotidiana, è ormai una realtà sconcertante.
Ci troviamo di fronte ad un crollo globale, non soltanto dell’economia, ma di tutto ciò che, fino ad ora, abbiamo riconosciuto come normalità, nello scorrere delle nostre vite. Ora che le parole di coloro che per un’intera vita si sono fatti carico di evitare il momento attuale non risultano più tanto “marziane”, dovremmo assistere al trionfo del buon senso, al tripudio dell’intelletto sulla viscera, ad un Nuovo Umanesimo capace di risollevare le sorti dei popoli europei malati di opulenza e vittime di se stessi e delle proprie insufficienze. Invece no, niente di tutto questo; siamo di fronte al disperato tentativo dei molti di non vedere, di convincersi che, in fondo, tutto ritornerà come prima, mentre nulla tornerà come prima, perchè questa crisi rappresenta la fine di una civiltà, di un modo, cioè, di interpretare l’esistenza.
Non arriviamo più a fine mese, eppure continuiamo ad usare le banche, quelle stesse banche che ci hanno rovinato la vita; perdiamo il lavoro e non mettiamo in discussione il fatto che, aver fatto rate anche per comprare il cesso, in fondo, non è stata una cosa interessante; diciamo che i politici sono tutti ladri, e poi, se ne abbiamo l’occasione siamo i primi a fottere.
Insomma, tutto questo per dire che, se siamo nella merda in questo modo così grave, la responsabilità è soltanto nostra, anzi, di coloro che, per anni, se ne sono fregati di tutto ciò che era impegno sociale, informazione, attivismo per il bene comune, sbattimento per la difesa di uno straccio di diritto. No, non c’era tempo, non c’era mai tempo per questo, perchè si doveva fare la spesa al centro commerciale, guardare la televisione, fare lo straordinario per pagarsi la macchina e andare a fare i buffoni al paese durante le ferie estive.
Si arriva in questo modo alla più classica violenza personale che si concentra all’interno delle famiglie prima e nella vita sociale poi, generando drammatici casi di persone che, perdendo la testa, mettono a repentaglio non solo la loro vita, ma anche di coloro che li circondano.
Soltanto ultimamente, grazie ad un’esperienza personale, mi sono avveduto di quanto questo sistema di vita sia in struttura, cioè fortemente strutturato ed organizzato per rendere le persone schiave e sempre più in balia degli eventi esterni, come se, questi, riuscissero a superare l’intenzionalità che ognuno possiede e, grazie alla quale, è possibile prendere decisioni. Il fatto è che, in questo momento, tutto appare cristallizzato e immobile, non sono nel lavoro, nel denaro e in tutte le manifestazioni esterne del vivere quotidiano, ma soprattutto in quel mondo riconducibile alla parte più interna di se, che sembra come annichilità e morta sotto i feroci colpi di uno stress divenuto patologia sociale e permanente.
In questo drammatico stato di cose, tutto si ingigantisce e perde la sua collocazione nel reale, per cui, un problema che fino a poco tempo prima aveva possibilità di essere affrontato e risolto, oggi diviene così insormontabile da generare vere e proprie tragedie. L’incremento delle uccisioni e dei suicidi è la prova del crollo esponenziale di un sistema che ha creato mostri con l’aiuto di coloro che mostri volevano diventare, tramite l’obbedienza incontrastata alle regole della vita pensata e prefabbricata da altri, che altro non era che il rigenerarsi degli alibi che hanno portato all’indifferenza più acuta verso ogni cosa, non fosse stata conducibile al proprio tornaconto personale, anche in buona fede.
Lavorare, acquistare, mangiare, defecare e dormire, questa la vita per quasi tutti, una sorta di automa biologico, carne da macello buona per coloro che hanno le leve del potere e che le sanno usare bene, sfruttando le meschinerie più profonde di cui la mediocrità è splendida interprete.
Un Paese in cui chiudono centomila aziende in un anno, in cui la disoccupazione giovanile arriva al 35%, in cui il debito pubblico ha sfondato i duemila miliardi di euro, in cui le sale scommesse superano enormemente le librerie e continuano le discriminazioni contro le fasce più deboli della società, è un Paese morto, morto nella dignità, nell’intelletto, nella voglia di aprirsi a nuove esperienze sociali che ne possano far superare le endemiche e annose paure. Un Paese morto che non merita le eccellenze che, giustamente, fuggono da questa realtà in cui solo i furbi hanno possibilità e gli onesti vengono visti come dei coglioni.
Un Paese così, non è il mio Paese, ed è per questo che intendo ripudiarlo con tutte le mie forze e, sebbene sia convinto che non ci sia più niente da fare per cambiare radicalmente le cose, sono altrettanto certo che, l’unica via possibile per non impazzire, sia di continuare a lottare per un essere umano che si discosti dal poco che è adesso, che possa gettare le basi per un risveglio ormai necessario, ma lontano ancora dall’essere una realtà oggettiva. Si, insistere nel percorrere questa strada, per poter continuare ad esistere, a sentirsi, a percepirsi e a non disumanizzarsi. Occorre resistere e credere che, in fondo, guardare con un minimo di ottimismo al futuro, è più conveniente di annientarsi e rinunciare, per sempre, alla vita stessa, ad un’ultima possibilità che c’è, esiste, e che aspetta di poter essere sfruttata per restituirci un briciolo di dignità e di rispetto per noi stessi.