Ponte Morandi: una tragedia esistenziale in un paese che muore

“Signor Marchetti, ma come una tragedia esistenziale? Semmai si tratta di una tragedia umana, al massimo economica”. Come al solito si parla sempre di tutto tranne che del tema centrale: le ragioni per cui le cose accadono. Ora, perché un ponte che aveva poco più di cinquant’anni, crolla in quel modo portandosi via la vita di trentanove persone? Il calcestruzzo, la manutenzione, la politica, le privatizzazioni, il progetto, il profitto. Va tutto bene e, certamente, da ora in poi saremmo tutti impegnati nel sostenere le polemiche, le recriminazioni e le trasmissioni di approfondimento, mentre già è iniziata, un secondo dopo il crollo, quella fantastica attività di cui noi siamo i più grandi detentori: lo scarica barile ed il rimbalzo delle responsabilità, nonché lo sfruttamento della tragedia per fini pubblicitari e propagandistici di varia natura.

E parliamo allora delle responsabilità; ma cerchiamo di farlo da un punto di vista che, per un momento, si discosti dalla cronaca di questi giorni. Prima di ogni altra cosa è necessario rivedere totalmente l’idea, tramandata di generazione in generazione, di quanto siano stati meravigliosi gli anni sessanta del XX Secolo. A parer mio l’inizio della fine, più che il miglior momento che il nostro paese abbia vissuto dal dopo guerra ad oggi. Cerchiamo di analizzare, usando un briciolo di onestà intellettuale, ciò che accadde davvero in quegli anni, in relazione agli eventi di questi ultimi tempi. L’Italia usciva a pezzi da una dittatura che l’aveva condotta nel baratro della guerra, una guerra che aveva portato fame, distruzione, deportazione e morte, come tutte le guerre. Un conflitto che ci vide cambiare nemici e amici in corso d’opera, lasciando strascichi fatali sulla reale affidabilità del popolo italiano. Dopo il fascismo venimmo assoggettati all’influenza americana, dalla quale non riuscimmo più a staccarci divenendo, di fatto, una colonia geopoliticamente strategica ed utile agli U.S.A. per cercare di dominare il vecchio continente e il medio oriente, oltre che il mediterraneo. Poi, il nostro paese, tirò fuori dal cilindro il coniglio del P.C.I., che divenne il più potente partito comunista del mondo dopo il Pcus; e qualcosa per evitare che prendesse il potere e fungesse da effetto domino per tutto l’occidente, gli States dovevano pur organizzarlo. Pensarono di usare il BOOM, sia nella regia della strategia della tensione, che nella incredibile crescita economica, in modo tale da anestetizzare ogni anelito di libertà e di approfondimento sulle reali condizioni del paese e sull’incedere degli eventi storici.

La formula era chiara e semplice: benessere economico + paura = mantenimento dello status quo. Un calcolo  talmente valido da aver successo tutt’ora.

L’Italia andava ricostruita. Quale migliore occasione di riversare sul nostro paese un fiume di miliardi di dollari, per la creazioni di grandi opere, nuovi quartieri, fabbriche, supermercati, tra gli anni 50, 60 e 70? Quante delle nostre città sono state sconvolte e deturpate da un’urbanizzazione selvaggia tutta profitto e zero sicurezza? Vogliamo ricordare la tragedia del Vajont; Genova con i suoi casermoni di 12 piani costruiti sulle colline; il Sacco di Palermo; l’Eternit, L’albergo Fuenti sulla Costiera Amalfina. E poi molte, molte altre opere dimenticate in qualche angolo dimenticato di provincia.

Ben pochi, allora, si impegnarono a fondo nel farsi domande e nell’opporsi a questo scempio che era sì, architettonico, ma anche e soprattutto esistenziale, perché poggiava sulla convinzione che il benessere materiale fosse il valore centrale, cioè a dire: se sto bene economicamente, sono soddisfatto, possiedo tutte le comodità del progresso, di conseguenza sono felice e non mi passa neanche dall’anticamera del cervello farmi domande sulle conseguenze di quel presunto progresso. Ci sono io con le mie necessità e tutto il mondo fuori, come se gli ingranaggi dello stesso, si ponessero al di fuori di me che, nello medesimo momento, lo vivo. Contorto a tal punto da essere adottato come una verità assoluta talmente comoda e per la quale è valso e vale tuttora, lottare a colpi di qualunquismo, disinteresse ed indifferenza. E’ in questa maniera che si ammazza un popolo, una nazione e la voglia di essere protagonisti di una storia umana e non di un mero cammino verso la disumanizzazione di un mondo che passa, necessariamente, dal contributo che riesco a dare come persona e non come animale urbano che consuma per vivere e viene consumato dal consumismo sfrenato e mortifero.

Mentre ci si perdeva nelle rate, nei mutui e nelle cambiali, l’Italia continuava ad accumulare una serie di mostruosità che, in futuro, avrebbero chiesto il conto. Non ci si voleva rendere conto che, quanto più era elevato il livello di opulenza dei nostri centri urbani, tanto più cresceva il rischio idrogeologico, l’inquinamento ed il degrado dell’ambiente e delle costruzioni fatte con tanta sabbia e poco cemento. Tutto questo andava, giorno dopo giorno, con una costanza ineluttabile ad erodere il potere di critica, la volontà di sapere e, quindi, di opporsi a quella realtà che stava facendo, del mondo intero, un enorme banco di prova per le nefandezze più atroci, per le ingiustizie, per le neo schiavitù. Una pigrizia mentale e fisica vedeva i suoi albori, sino a celebrare la sua vittoria finale in questo inizio di Terzo Millenio.

Tutto questo per dire che, ogni cosa accaduta, che accade e che accadrà domani è dipesa, dipende e dipenderà dal grado di maturità e cultura di un intero popolo. Inutile puntare il dito rabbioso del dopo tragedia, inutile prodursi i veementi accuse, inutile lasciarsi andare al qualunquistico neo paradigma del “invece di fare questo, dovrebbero fare quest’altro”. Chi dovrebbe fare cosa, se non ognuno di noi facesse il proprio dovere di persona che decide di uscire dall’individualismo?

Certo, iniziare a prendere coscienza di questi temi è molto difficoltoso, perché significa ammettere che, in un modo o nell’altro, mi sono reso complice dello schifo che a parole tanto contesto e che, in fondo, tutti noi, chi più e chi meno, siamo responsabili della tragedia di Genova. Il nostro silenzio nell’accettare tutto ciò che negli anni ci è stato propinato come verità assoluta, oggi, ci viene restituito sotto forma di un ponte che crolla. E state tranquilli che, questa, non sarà l’ultima tragedia che ci colpirà, se non decidiamo di alzare la testa e lo spirito, perduti nel tunnel della persona che, da meravigliosa creatura, si trasforma in consumatore, zombie metropolitano, raggirato dal più furbo.

Spero che, tutta la rabbia, il dolore e il senso di impotenza di fronte alla tragedia di Genova, possa donarci la forza per iniziare a reagire. Una reazione in cui l’intelletto sostituisca l’oblio del pensiero; il cuore sostituisca l’impulso emotivo, l’intelligenza sostituisca le viscere e la lungimiranza si ponga come asse tra presente e futuro, senza scordare gli orrori del passato, affinché non si possano riprodurre, anche nel più semplice e banale atto della vita di tutti i giorni.